Tra Gallimard e Céline è conto aperto da novant’anni: il manoscritto del Voyage, rimpallato dalla redazione che pensava a non pochi tagli, fu pubblicato dallo squattrinato, geniale Denoël. Come perdere per ignavia un capolavoro. Nel dopoguerra, Gaston Gallimard, che Céline apostrofava come ladro e tagliagole, accolse il consiglio del consulente Roger Nimier e pubblicò lo scrittore più odiato di Francia -esclusi i pamphlet antisemiti- riconoscendogli diritti d’autore ben oltre il venduto e un generoso fisso mensile. A fine ottobre Gallimard ha edito in grande spolvero Londres; a mo’di sottotitolo, édition etablie et présentée par Regis Tettamanzi, il più autorevole studioso céliniano. Veste editoriale d’antan e fascetta rossa: CÉLINE INEDIT. Il termine “inedito” è quanto mai sdrucciolevole perché, come precisa Tettamanzi, metà testo è di prima stesura. E il conto si riapre. Le pagine manoscritte- ora sappiamo che erano oltre un migliaio e non seicento- erano state rubate nell’appartamento di Céline dal suo contabile, Oscar Rosembly, sedicente resistente, pratico di ogni espediente, un mariuolo. Rocambolescamente ricomparsi con annesso guazzabuglio di rivendicazioni, i fogli sono, ora, Londres, appunto, e Guerre, apparso a maggio sempre per Gallimard nell’edizione di Pascal Fouché, autore, con Jean Pierre Dauphin della Bibliographie des écrits de Louis-Ferdinand Céline, 1918-1984. Pensava a una quadrilogia, Céline? Dopo la guerra, la convalescenza, Londra e il rovesciamento temporale con Mort à credit? Gallimard pubblicò nel 2008, Lettres à Marie Canavaggia 1936-1960, a cura di Jean Paul Louis apparso in Italia per Archinto con le eccellenti traduzione e postfazione di Elio Nasuelli. Marie Canavaggia è stata la segretaria e amica di Bardamu, la “decriptatrice” della grafia nervosa, dei rimandi di rimandi, correzioni rompicapo, cancellature. La lettera che segue è stata scritta a Le Havre il 12 aprile 1936. Corsivo e grassetto sono in originale. “Non c’è dettaglio per quanto piccolo che mi possa spaventare! Me li accollo tutti! La minima virgola mi appassiona! Non conosco, odio la stravaganza e il felice ripiego. Categoricamente no. Me le addosso tutte le difficoltà, tutti gli sforzi per concludere. È a lavoro concluso che si riconosce il vero operaio. Che non molla mai. E io sono uno che non molla. Se lo tenga a mente –non si faccia mettere fretta. 8 giorni in più possono contare moltissimo per un lavoro- contano zero sulle vendite. E il lavoro dopotutto viene dopo le vendite”.
Dunque, Londres, non è un romanzo finito di Céline, essendo noi tutti informati di come l’autore riscrivesse enne volte parole, frasi, interi periodi, come pretendesse che non una virgola venisse omessa o spostata. Lo stile è tutto, non la trama, ed è lima, sudore, ossessione di non finire mai. Londres è una bozza, forse “a buon punto”. Le prime duecento quaranta cinque pagine sono state riviste da Céline. La seconda e la terza parte, di centocinquanta e ottantanove, no. Tettamanzi “suggerisce” che Londres offra la chance di percepire il gigantesco lavoro che inizia dopo la prima stesura, sottolinea gli elementi condiviso con Guignol’s band –Yugenbitz sarà Clodovitz- e come la capitale inglese sia essa stessa personaggio di primo livello. Come la Senna, così il Tamigi, aggiungiamo. Nulla di nuovo.
La copia che ho letta è il dono dell’amico regista francese Denis Einaudi che ha faticato a trovarla, tal è il successo di vendita. Duecentomila copie a venticinque euro fanno cinque milioni di euro. I francesi sdegnati, che a fine anni Cinquanta rifiutavano i libri di Céline offerti in omaggio al Passage Choiseul, si accaparrano ora un ibrido completo di glossario dell’argot, degli interventi redazionali, dell’indice dei personaggi e della robusta introduzione del curatore. Manuale per l’uso… ad uso di chi, magari, di Céline, che si sta rivoltando nella tomba al cimitero di Meudon, non ha letto altro. Dopo la convalescenza -aveva rischiato l’amputazione di un braccio- il sergente Destouches fu trasferito all’ambasciata francese a Londra. Timbri, faldoni, burocrazia. Il neo-passacarte parlava fluentemente inglese e tedesco, piaceva alle donne e alle donnine e ai protettori. Sposò una ballerina che si presentò a Parigi alla famiglia Destouches come nuora senza nulla a pretendere; il matrimonio non fu trascritto e morì poco dopo.
Cronaca vera e finzione letteraria si sovrappongono in un piccolo microcosmo di vizio, Leicester Square, Soho, eredità, anche, di rifugiati politici sottrattisi alla galera nel 1848 e nel 1871, rifugio di evasi dai bagni penali fuggiti oltremanica, ladri e dintorni, unificati tutti dall’urgenza di parlare il francese della suburra, delle Halles all’alba, di “strofinare le spalle”, con gli anarchici russi bombaroli come il Borokrom che potrebbe essere uscito dalla penna di Umberto Eco nel Cimitero di Praga. Un antisemita non meno accalorato di Céline. « Il m’a instruit comment il y avait des classes sociales […] – C’est un juif qui a découvert la chose, Ferdinand. Il demeurait pas loin d’ici, il a tout expliqué. / Je crois qu’au fond il aimait pas les juifs et le Marx en question non plus […] – Tu vois Ferdinand […] ce qui leur plait dans Marx, je vais te le dire, c’est le géant d’orgueil, quelque chose comme Victor Hugo, mais alors en youpin, tu comprends, un romantique délirant avec des chiffres et des précisions. C’est triste!»
L’amore ricambiato per una prostituta, un informatore della polizia tolto di mezzo simulando un suicidio, lo scontro tra un uomo e un orso, una ballerina americana (la rivisitazione della Craig?) che salva il protagonista dalla disperazione, lanciatori di coltelli, un bimbo che muore nonostante le cure del medico (Bébert?)… E come non pensare al delirio scientifico-antisemita delle Bagatelles pour un massacre e dell’Église, alla ricorrenza di tematiche, volti e nomi che riappariranno nei testi a venire? Ma “questo” Céline è opaco nonostante Céline, è musica con la sordina, senza eco che non sia nell’autosuggestione di stima preventiva e forzata del lettore; percettibilmente, Céline fa il verso a sé stesso ma non conosce, qui, sfumature né gradazioni, come se avesse sostituito i colori a olio con l’acrilico. Risultato: aberrazione, degrado, violenza sono preludio a una grande complicazione lontana dalla messa a punto, priva d’indizi per la collocazione temporale della genesi – metà degli anni Trenta?- e così alla causa, o alle concause del suo stato di “incompiuto” o di abbandono. Avrebbe dovuto lavorare molto, Céline, per avvicinare Londres al Voyage e al sicuramente successivo Mort à Credit. Ma sono tempi, i nostri, in cui il Nobel per la Letteratura, a detta dell’Accademia, va a un’arzilla signora francese, Annie Ernaux, “per il coraggio e l’accuratezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”. Specchio dei tempi. Teniamoci stretto “questo” Céline, dunque!