A casa di Céline i ladri cercavano la pistola fumante
Louis Ferdinand Destouches, l’uomo più odiato di Francia, “abbaiava” di essere stato derubato fino alla nudità nel saccheggio del suo appartamento parigino.
Era il 1944 e tirava una brutta aria per lui, autore di tre pamphlet antisemiti pubblicati da Denoël che, insieme all’accusa di collaborazionismo, gli sarebbero costati cari: la galera, la condanna a morte scansata per un cavillo, il sequestro della metà dei beni e l’irreversibile declino fisico e sociale.
Dell’invincibile esecrazione dei “cagoni” connazionali, che si erano fermati a fine corsa -parole sue- davanti all’oceano perché non sapevano nuotare e più in là non sarebbero potuti scappare, non gli fregava nulla. Aveva raccontato la Grande Guerra come solo Barbusse era stato capace, e la quotidiana ferocia del secolo del grande inganno acquattata nella società, da medico del dispensario che visitava miserabili e poveracci, parificati, salve poche eccezioni, nella scarnificante carognaggine reciproca.
La Resistenza che gli spediva lettere di insulti e minacce e piccole bare di cartone, aveva forzato la porta dell’appartamento in affitto di rue Girardon e arraffato centinaia di fogli manoscritti, per trovare la pistola fumante, la prova provata della collaborazione diretta e concreta di Céline con i nazisti. Lo volevano processato e condannato a morte, come Brasillac…
Diceva la verità, l’autore del Voyage au bout de la nuit e di Mort à credit, perché non lamentava il furto di qualche ammennicolo ma di almeno cinquecento pagine del romanzo Casse Pipe, che fu pubblicato mutilato, delle bozze del romanzo Londres e di chissà cos’altro. Ho scritto “abbaiava” perché qualunque cosa dicesse Céline veniva cassata, neanche la leggesse Sartre in calzamaglia nera d’ordinanza della nouvelle vague, bollata come lo sfogo di un prostatico di destra in disarmo. No. A uno scrittore puoi sottrarre tutto ma non i manoscritti, irripetibili sempre, anche nella pagina scritta il giorno prima, figuriamoci per Céline che si sfiniva su ogni singola virgola nella recherche dello stile, il suo, senza paragoni.
Non c’è portineria che non sia piena di trame da romanzo: dipende da come le racconti, le storie, sennò è roba da Gesuiti e da notai, buona per le mattanze dei premi letterari e non per dire della vita.
Il tempo è galantuomo solo se gli va. Stavolta ha aspettato poco meno di ottant’anni, per restituire il maltolto, in un intricato passaggio tra un collaboratore del quotidiano “de la gauche” Libération, Thibaudat, l’avvocato specialista di questioni editoriali Pierrat, il giornale Le Monde: a fine 2019, poco dopo la morte dell’ultracentenaria vedova di Céline, Lucette.
In sintesi: un lettore di Libération aveva consegnato a Thibaudat un sacco con gli scritti rubati a Céline e il giornalista s’era messo di buzzo buono a riordinarli. Andiamoci piano: Céline scriveva a mano e a caratteri grandi. Annotava correzioni di correzioni e rimandi, note, cancellature, riscritture, ripensamenti, sui bordi. Roba da Champollion…Tradotti in pagine stampate, seicento fogli saranno molti molti meno.
La segretaria di Céline, Marie Canavaggia, decriptava il rompicapo e lo batteva a macchina. Bardamu si fidava solo di lei. Per una virgola omessa, avrebbe aperto il vaso di Pandora. Ne sa qualcosa l’avvocato Gibault, legale di Lucette, che mise insieme i fogli pinzati con le mollette da bucato dello straordinario Rigodon, finito da Céline poche ore prima di morire, il primo luglio 1961. Gli ci sono voluti anni e l’approvazione, riga per riga, della vedova. Perché Gibault? Perché lo volle Lucette, non per scarsa fiducia verso la Canavaggia, ma per gelosia: sapeva che era da sempre innamorata di Bardamu, che non le aveva dato una chance che fosse una.
Gibault, per inciso, è l’autore della cronometrica e sin qui definitiva biografia in tre volumi di Céline.
Poco più di un anno fa, Thibaudat e Pierrat incontrano Gibault e Véronique Robert-Chovin, dama di compagnia di Lucette, autrice per Grasset di Lucette Destouches, épouse Céline, diario di sogni e ricordi degli ultimi anni della vedova, morta sul filo di lana dei centonove anni.. Nella palazzina di Meudon, Charles Aznavour cantava per lei. Dunque, l’appuntamento. Va che i due aventi diritto del corpus céliniano, Gibault e la Chovin, presentano una denuncia per furto. Chi è il ladro? Quell’Oscar Rosembly morto nel 1980, amico del pittore Gen Paul, sino al 1944 intimo di Céline, proprietario della chiatta-bistrot sul Lungosenna , in correità con Robert Morin, André Pacary e Desiré Bourg? Rosembly, contabile di Céline finì in gattabuia, a fine guerra, sedicente resistente, diversamente dagli altri tre che lo erano davvero.
E chi ha conservato i manoscritti, consegnati a Thibaudat solo dopo l’impegno da parte di questi a non farne voce fino alla morte di Lucette, perché non ne traesse vantaggi economici?
Gibault e la signora Chovin, dopo l’autenticazione dei documenti, li doneranno alla Bibliothèque Nationale insieme al manoscritto di Mort à Credit, il secondo romanzo, già quantificato nel valore venale come milionario da pragmatici bibliofagi.
Senza Roger Nimier, autore dell’Hussard Bleu, Céline non sarebbe approdato negli anni Cinquanta a Gallimard, che gli aveva sfilato il Goncourt, che il Voyage aveva già vinto, trescando, come sempre accade, con la giuria. Céline, nonostante il pingue appannaggio mensile e i diritti d’autore che non tenevano conto dell’aritmetica, diede a Gaston Gallimard del tagliagole fino all’ultimo giorno. Nimier morì nel settembre 1962 nello schianto della sua Aston Martin rossa. E Gallimard pubblicherà gli inediti.
Forse, stavolta, al tempo va di fare il galantuomo.