Pare che l’attore francese Philippe Leroy sia morto a 94 anni. Ma potrebbe essere un coup de theatre, l’ennesimo della sua ottava vita, perché ne aveva una più dei gatti. Le biografie ex post abbondano in queste incredule ore, mettendo in fila la famiglia agiata e prestigiosa, l’insofferenza alle regole, l’inquietudine esistenziale, la vita non meno avventurosa di quella di Janez, ruolo che lo ha reso più popolare e amato, dal chepi blanc della Legione Straniera all’approdo al cinema, con quella faccia un po’ così da film di Verneuil. Ovvio tombeur de femmes, tra cui Brigitte Bardot, paracadutista con oltre duemila lanci, consumatore di bionde – stavolta sono sigarette – a una media di tre pacchetti al giorno, fisico da peso medio, salute inossidabile.
Perché ne scrivo? Perché ha recitato nel film del regista e sceneggiatore sardo, Cesare Furesi, Chi salverà le rose, girato ad Alghero, dove sono di casa, uscito nelle sale ormai sette anni fa.
Con Lando Buzzanca e Carlo Delle Piane, Leroy aveva nobilitato – non è retorica ex post – una trama di raro garbo sull’amicizia particolare tra due anziani, il merlo maschio di un tempo, avvocato confinato in un letto e l’attore preferito da Pupi Avati, il cicalone di Un americano a Roma, poi riconosciuto dal cinema d’autore come grande interprete. Nel ruolo della figlia di Delle Piane, ex pokerista di professione ormai senza un soldo che torna per l’ultima volta al tavolo verde per tentare il tutto per tutto, la tanto brava quanto bella Caterina Murino, legata al genitore da un conflittuale affetto che troverà componimento solo con un gesto, non suo, irrimediabile.
Nient’altro sulla trama arricchita da dialoghi senza una sbavatura, dalla notevole colonna sonora di Marcello Peghin, dal dono di un pathos narrativo come quasi mai si riscontra e dalla regia senz’altro encomiabile.
Ne scrivo perché ho visto il film in anteprima per un gesto di garbo, non il primo, di Cesare Furesi e ancora ricordo come e per quanti giorni ho ripensato alla pasta di cui erano fatti quei tre attori così diversi per trascorsi esistenziali, carriera, fisicità, così teoricamente difficili da amalgamare e invece sinergici come strumenti ad arco per un trio di musica da camera. Da caratterista ad anima dolce e dolente Delle Piane, dalla commedia all’italiana d’autore di Germi ai top scorer d’incassi Buzzanca, dalle pellicole d’azione all’eroe salgariano, al Leonardo da Vinci, Leroy, così perfetti tutti in un’opera carezzevole e, lo scrivo senza timore di sbordare, da abbracciare. A conferma, la triplice candidatura ai Globi d’Oro del 2017.
Ho ambientato alla Rochelle quattro romanzi, pubblicati da Sperling & Kupfer e da Mursia,
L’ultima notte sul Normandie, L’uomo del cargo, La donna della tempesta e Mare notte. Il protagonista è Cedric Destouches, già capitano di navi mercantili, velista armatore di una Wauquiez, cinofilo con un Epagneul Breton, Agar. La Rochelle è la porta della Francia sull’Atlantico, le Wauquiez di vent’anni fa erano magnifiche e quel volto da mistral, da Glénans, da amico di Tabarly, Colas, De Kersauson (che a luglio compirà ottant’anni), era di Philippe Leroy, non meno di ceux qui naviguent in solitaria, in un mondo che, per grande che sia, non lo è mai abbastanza. Una “faccia”, quella di Leroy – Destouches che testimoniava la veridicità del proverbio il y a un homme qui a un maison, il y a un homme qui a des valises.
Il primo non deve invidiare il secondo perché essere di nessun luogo che non sia “avventura della vita”, non è facile, anzi, è pesante come il Falcone Maltese , perché è fatto della materia di cui sono fatti i sogni. Au revoir!