La ricorrenza è duplice: a centotrent’anni dalla nascita, a cinquanta dalla morte di Carlo Emilio Gadda, Adelphi pubblica il corposo Giornale di Guerra e di Prigionia, – 626 pagine, 35 euro- con sei Taccuini inediti, acquisiti dalla Biblioteca nazionale centrale di Roma: i giorni di novembre e dicembre 1919, note autobiografiche, progetti letterari, traduzioni.
Quattro giorni prima dell’armistizio. Gli imperi centrali sono sconfitti. Gadda è prigioniero in Germania. Lo stato d’animo detta le parole. Tutto (non) è finito, anzi.
Celle Lager (Hannover) 7 novembre 1918. Guardo al futuro aspettando, e penso che non val la pena di commuoversi troppo; forse sono allo stremo delle attività spirituali, ma forse ragiono, forse è l’esperienza. I miei soldati. La tenda di Clodig e la pioggia dirotta. I miei soldati, il mio passato. La bellezza finita. Le difficoltà dell’avvenire. Come posso procurarmi la conoscenza, cioè lo studio profondo e serio inchiavardato di pensiero e pensiero, e i viaggi e la frequenza degli uomini e delle cose, come procurarmi i materiali dell’intuizione e del concetto? Povertà, e necessità del duro lavoro. Tristezza e stanchezza. Sono le anticipazioni di un inesausto percorso di vita che sceglierà anche il linguaggio per circumnavigarsi.
L’ufficiale milanese, studente d’Ingegneria, interventista della prima ora, è partito volontario nella diffusa certezza di combattere una guerra giusta.
Il termine a quo del 24 maggio 1915, concordato con Francia e Gran Bretagna nel Patto di Londra, era foriero di ampie promesse di non minori ridefinizioni territoriali, disconosciute a Versailles. L’accelerazione della storia che frana nel baratro è violenta; il tempo breve disvela altra realtà da quella dell’eroe difensore del patrio suolo, pronto al sacrificio estremo. La testimonianza indirizza la fotoelettrica sulla variegatamente declinata, miserrima condizione umana.
È la follia della storia che mente e tradisce sé stessa. Quand’è che i miei luridi compatrioti di tutte le classi, di tutti i ceti… quand’è che questa razza di maiali, di porci, di esseri capaci soltanto d’imbruttire il mondo col disordine e con la prolissità dei loro atti sconclusionati, sarà capace di dare al seguito delle proprie azioni un legame logico?
Potrebbe essere Barbousse come Céline, Charles Péguy, Alain Fournier, Louis Pergaud, Blaise Cendrars. O Guillaume Apollinaire, ucciso non da una pallottola ma dalla Spagnola contratta al fronte. O il tedesco Eric Maria Remarque, l’americano Hemingway, i britannici C.S.Lewis, Sassoon, Gurney, i nostri Giosuè Borsi e Mario Pichi, Vittorio Locchi, Nino Oxilia, Ugo Ceccarelli.
Dov’è il nemico-fratello di Clemente Rebora? Per chi pulsa, ancora, il cuore straziato di Ungaretti?
Potrebbe essere uno qualunque tra le migliaia di poilus, fanti, infanterist, infantryman che, incisa la gamella con la baionetta, scrivono in un quadernino gli elementi del disastro. La corrispondenza passava al vaglio della censura militare e del controspionaggio; ex post, poco ne restava. Sono i fogli ripiegati nel pastrano, i taccuini ritrovati nella terra smossa e nelle divise squarciate, le pagine reduci anch’esse, a dire di cosa siano state capaci le segreterie di stato, i ministeri, gli stati maggiori, tutti, generali o burbe. Le differenze sintattiche, l’ampiezza del portfolio lessicale, sinonimi e contrari, sono dettagli di un insieme: si affollano più storie in un solco di trincea che in una biblioteca. Gadda ne scava una seconda, la sua, il camminamento nel caos del momento e di quello che verrà.
La guerra è ‘A livella ma pure si intravvedono nell’Ordo et connectio idearum del Giornale, i fittoni della Cognizione del dolore come del Pasticciaccio. Il sottotenente Gadda è diplomato al Liceo Classico Parini di Milano, metacentro imprenditoriale del regno, studia Ingegneria Elettromeccanica, è di famiglia altoborghese con le frequentazioni sociali- e il galateo- del caso. Un aristocratico. L’Italia è fatta di operai, contadini, analfabeti: necessitati nella disperazione di sopravvivere, conosceranno, tutti, la voracità della guerra moderna, mitragliatrice, filo spinato, trincea, gas. Ancora non ce ne capacitiamo. Nel primo giorno della battaglia della Somme, l’esercito inglese perde 21 mila uomini e 25 mila sono menomati. Aggiungiamo le perdite tedesche e le cinquemila granate esplose ogni minuto sulle truppe? Il Vecchio Continente si suicida sterminando un paio di generazioni di militari e civili e con la tabula rasa dei territori. È il “buongiorno” del secolo del grande inganno, della Grande Illusione di Renoir, di Orizzonti di gloria di Kubrik, di innumerevoli vicende sepolte.
Acquistai questo quaderno oggi, in Edolo, al Bazar Edolo.
È il 24 agosto 1915. Assegnato alla seconda sezione dell’89° Reparto mitragliatrici del 5° Reggimento Alpini, dislocato sull’Adamello e sulle alture del comprensorio vicentino, prigioniero dopo la dodicesima battaglia dell’Isonzo, iniziata il 24 ottobre 1917- la disfatta di Caporetto- che costò all’Italia 300 mila prigionieri, 350 mila sbandati e la ritirata fino al Piave, Gadda scrive, disegna, schizza. È cronometrica cronaca, nonostante la perdita del quaderno Torino.Carso.Clodig. (novembre ‘16-ottobre ’17). È indignazione, rifiuto, insopportazione.
Io credo che l’ufficiale non debba stare in caverna che in caso di estremo-insopportabile fuoco di grossi calibri, negli altri deve tentare la sorte. Perché, a parte la sicurezza, io odio la caverna e la troppa vicinanza che essa offre del carname umano.
Il “carname umano” è l’oggetto di una statistica? Quali disvalori contano più di una sola vita? Il senso del dovere, la rivendicazione di un’appartenenza?
Non nego che il sacrificio della vita sia gravissimo per tutti: che gravissimo appaia anche a me: ma l’uomo deve essere uomo e non coniglio, la paura della prima fucilata, della prima cannonata, del primo sangue, del primo morto è una paura da tutti ma la paura continua, incessante, logorante è roba che mi fa schifo. Sono in campo forze che crediamo ancestrali, e invece sono primarie, correnti, comuni.
Il cadavere era bocconi, decollato completamente, col collo fuori dalla terrazza […] La granata era esplosa in pieno nella testa del povero soldato. Sollevammo il cadavere: sangue e cervello colavano lungo il muro. Per un filatello della mucosa labiale, il palato e la corona dei denti rimasero attaccati con un po’ di barba e mandibola inferiore al collo tagliato. Un disegno descrive la posizione del corpo. Cosa e come sapranno madri, mogli, fidanzate, sorelle, ragazze della porta accanto?
Chi, vergine dell’orrore, non sa metabolizzare. Chi, come Gadda, nel 1934, pubblica Il Castello di Udine, i cui primi cinque capitoli sono la riproposizione del Giornale e, con altro senso di colpa di chi è sopravvissuto, ricorda: E in guerra ho passato alcune ore delle migliori di mia vita, di quelle che m’hanno dato oblìo e compiuta immedesimazione del mio essere con la mia idea: questo anche se trema la terra, si chiama felicità.
Della futura grandezza dello scrittore, non si discute. Considerare quegli anni di guerra e prigionia come il secondo battesimo del fuoco, quello della vita e come l’ennesima trincea alla connaturata corruzione umana, altrettanto.