Ottant’anni fa si suicidava lo scrittore di Feu Follet. La parabola di un grande talento letterario, compromesso con il nazismo.
Martedì 20 marzo 1945, Parigi era tiepida e libera.
Arrivavano al funerale di Pierre Drieu la Rochelle alla spicciolata, in taxi, in bus, a piedi. Un cenno di saluto, strette di mano, un abbraccio oltrepassato il cancello.
Più donne che uomini: le due ex mogli, Colette e Olésia, amanti accasate, partner appassite dagli anni e dalle lacrime. Non c’era la fatale Christiane, la Beloukia del romanzo pubblicato da Gallimard nel 1936, moglie dell’industriale dell’auto Louis Renault, che aveva salvato la fabbrica sotto la collinetta di Meudon, traccheggiando con i nazisti.
Lei e i monumentali cani barbone neri, lei e lo scandalo in società, lei e quel catafalco di limousine.
Amici. Paul Chadourne, Jean Boyer, Jean Bernier, l’editore Gaston Gallimard con il figlio, un futuro biografo, il filosofo Brice Parain, lo scrittore-clochard Maurice Boissard , Philippe Clément e sconosciuti che guardavano attorno.
Fumavano, soli e a crocchi sul viale di ghiaia; parlavano sottovoce, allargando le braccia e scuotendo il capo, mentre i profumi di Coty, Caron, Patou e Guerlain, modellavano turbolenze tra le siepi di bosso e i cipressi di Neuilly.
Erano presenti anche gli assenti, trattenuti altrove da contingenze prioritarie più che da complicità fratturate nel tempo e dalle inevitabili prese di distanza dalla sua deriva, come l’amico resistente, André Malraux – era stato padrino di battesimo di Vincent Malraux che morirà, con il fratello Gauthier, nato anch’esso dalla relazione extraconiugale con la modella Josette Clotis, in un incidente d’auto nel 1961- e Jean Paulhan, terzo direttore della Nouvelle Revue Française fino all’occupazione, uno dei “padri” della Résistence, imprigionato dai nazisti e liberato grazie all’intervento di Drieu con l’ambasciatore tedesco Otto Abetz.
Il 15 marzo, al terzo tentativo di suicidio, lo scrittore cinquantaduenne non era più un clandestino proscritto. Anestetizzato per sempre da tre tubetti di Gardenal e dal gas di una cucina economica, era dove aveva creduto di vivere per sempre, nella morte, più e meglio che nel ricordo dei vivi.
Dal primo tentativo, nell’agosto 1944, lo aveva salvato la domestica Gabrielle, rientrata a casa per recuperare la borsetta. Dal secondo, i medici dell’ospedale dove era stato ricoverato d’urgenza per la lavanda gastrica. Trasferito in un altro nosocomio, si era tagliato i polsi davanti allo specchio del bagno.
Al fatale giorno ad quem, il 15 marzo, mancavano duecento foglietti di calendario.
Le donne che non smettevano di amarlo… Era stato bello, alto, castano chiaro e grandi occhi azzurri, la fronte ampia, il sorriso raro ma caldo, mani da prestigiatore. Passione e distacco, Eros e Tanathos e l’istinto di protezione che scattava sempre, nonostante le avesse tradite tutte. Con chi? Con la morte.
Colette Jéramec e Olesia Sienkiewitz, complici altre femmes la cui devozione era più forte della gelosia, lo avrebbero nascosto al mondo fino al suo ultimo respiro, anche tentando di nascondergli il mondo liberato dalla svastica, che voleva chiudere i conti con i conniventi come lui.
Le peuple: collaboratori e delatori prelevati dal carcere e linciati, i cadaveri appesi in piazza, le loro case bruciate. Gavroche e Charles-Henri Sanson insieme.
Uno spaventapasseri. In campagna, vestito da contadino, baffi e basco calcato sulla fronte e sulle orecchie; la magrezza del volto invecchiato le rendeva enormi.
In un appartamento in città, arrivato di notte in auto, dopo mille deviazioni.
Le donne portavano il cibo, il whisky, le Camel, le rose baccarat dal gambo lungo, i quotidiani racconti del clima generale che, bugia replicata, un po’alla volta si ammorbidiva.
Gli ripetevano che la Francia avrebbe tenuto in buon conto i suoi interventi a favore dei perseguitati. Non aveva denunciato nessuno, anzi. Se si fosse consegnato, ecco, le cose sarebbero andate meglio. Ma i giornali scrivevano altro.
Aveva lasciato per tempo disposizioni puntuali sulle sue “cose” e sulla stringata sceneggiatura delle esequie. Chi si, chi no, a chi questo, a chi quello. Gli scritti, gli appunti, i libri, le tracce della sua tormentata sopravvivenza nella nausea crescente.
La decadenza era il suo cauchemar e il suo gemello muto.
Non aveva cercato “la” morte ma la “sua” morte.
Come Céline, aveva ricevuto lettere anonime di minacce e piccole bare di cartone. Ma, diversamente da Bardamu, Drieu non era fuggito nel barnum del castello di Sigmaringen, dove i reduci di Vichy e i collaborazionisti d’élite, ballavano la danse macabre degli spettri.
Il passaporto per la Spagna del generale Francisco Franco o per la Svizzera, dove il Reich aveva trasferito parte di quanto razziato agli ebrei, era pronto.
No, restava per salvare l’onore. Quale, dopo che a pochi passi dall’appartamento in cui si era nascosto, in rue Saint Ferdinand, i nazisti avevano rastrellato ottanta studenti ebrei, trucidati dove arbeit macht frei? Quale, dopo il Vent printanier al Vélodrome d’Hiver, 1942, oltre tredicimila deportati ad Auschwitz, non dai tedeschi ma dalla volonterosa polizia di Vichy? Tacere è stare con gli assassini, è fiancheggiare il nazismo, l’invasore-padrone dopo la disfatta militare francese del 1940.
La Grande Illusion dell’invalicabile Linea Maginot, per fare il verso al capolavoro di Jean Renoir del 1937, era evaporata in poche ore. Hitler all’Arc de Triomphe . Alla Tour Eiffel.
L’inquietudine di un irrisolto. Il cognome non inganni; Drieu non era di sangue blu. Piccola borghesia normanna, come larga parte dei francesi antidreyfusarde con buona pace del J’accuse di Émile Zola,salita di qualche piano della scala sociale grazie al nonno materno, architetto.
Il padre Emmanuel aveva dissipato parte della dote della moglie, accumulato debiti, perso la faccia e avvelenato dalle radici le attese del figlio nel futuro. La collazione tra la propria condizione e quella della patrie è stata inevitabile. Il giovanotto aveva visto di cosa erano state capaci le cancellerie europee, la guerra industriale, la finanza internazionale, la gente, poi, che, spenta l’eco della sfilata della Vittoria sui Campi Elisi, aveva dimostrato ben poca gratitudine per gli ex combattenti.
L’Europa che si andava suicidando a Versailles, era vecchia e corrotta, vaso di coccio tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti d’America.
Studioso brillante alla scuola di Scienze politiche di rue Saint Guillaume, imprevedibilmente bocciato all’esame finale – la sua scrittura era stata definita atroce – aveva pensato di gettarsi nella Senna per aver replicato i fallimenti del padre. Complesso d’inferiorità, misantropia, depressione. Era partito per il fronte nel 1914 con Nietzsche in valigia senza averne capito granché. L’uomo e il superuomo. Capirà, in quella inimmaginabile violenza? Sarà tra coloro che non sanno vivere, che cadono ma che sanno attraversare?
Congedato, sposa nel 1917 l’ebrea Colette Jéramec, ricercatrice dell’istituto Pasteur. Quattro anni di matrimonio e il divorzio. Seconde nozze con l’ereditiera Olésia Sienkiewitz. Frequenta dadaisti e surrealisti.
Lo interessano il movimento politico antiparlamentare Action francaise e l’idea del nazionalismo integrale di Charles Maurras; propone con Mesure de France, una linea politica repubblicana di destra moderata, oltre i partiti tradizionali. È filosemita – la prima moglie, è sorella del suo più caro amico, André Jéramec, morto in guerra nel 1914 -. Partecipa a riunioni antifasciste.
Orripilato dal vissuto nelle trincee, per poco vicino ai comunisti, poi filoeuropeista nella presa di distanza dal capitalismo e dal bolscevismo, quindi attratto dal movimento tecnocrate e corporativista Redressement Français del magnate Ernest Mercier e del generale Foch.
Poiché la borghesia e la cultura che produce corrono verso la morte, poiché il meccanismo capitalista, posseduto dal demone della quantità non sa creare altro che un’umanità di schiavi in un universo privato di ogni valore spirituale, dove collocare la mia fede se non nella Rivoluzione, mia speranza, mio simbolo, mio luogo? (Les derniers jours- 1927)
Radicale al giro di boa degli anni Venti, dichiaratamente antiparlamentare per gli scandali politici e per la crisi morale, economica e sociale, scrive per La Lutte des Jeunes di Bertrand de Jouvenel che propone il superamento dei partiti, incapaci di rappresentare le istanze popolari. Nel 1934 si dichiara socialista e fascista nella scia di Proudhon, e dunque nazional-europeista-ecologista, fermo nella terza posizione che non è liberale, non è marxista e non egualitarista.
Il passo fatale è verso la Germania del passo dell’oca, dell’atletica, minacciosa gioventù in marcia, dell’economia risanata, dell’ordine interno non importa come, delle architetture di Albert Speer, delle prossime Olimpiadi a Berlino, dell’individuazione del vero nemico, quello interno, che manovra la finanza e complotta a livello globale: l’ebreo.
Il Reich e Marianne insieme, a garanzia del domani!
Il curriculum: collaboratore di Je suis partout, La Gerbe, Cri du peuple – il peggio dell’antisemitismo – membro del Parti Populaire Français del delirante ex comunista Doriot, morto in divisa tedesca sotto un bombardamento; editorialista dell’Émancipation Nationale, Drieu la Rochelle era nel 1935 a Norimberga a un raduno del partito nazista; direttore della già prestigiosa Nouvelle Revue Française durante l’epurazione degli scrittori ebrei; ancora in Germania nel 1941 su invito di Joseph Goebbels agli intellettuali collaborazionisti francesi.
Frequentatore del maggior generale delle S.S. Otto Abetz, ambasciatore del Reich a Parigi, era però intervenuto più volte a favore di ebrei e non solo. Uno non a caso: Jean Paul Sartre.
La discesa agli inferi: il poeta che, nel 1932 era stato accompagnato da Jorge Luis Borges, amico della sua intima Victoria Ocampo nella tournée argentina, l’autore del profondo, dolente Le Feu Follet, ispirato solo in parte agli ultimi giorni dello scrittore amico suicida Jacques Rigaut, era ormai l’ectoplasma caduto. Lo affascinava Stalin, il padre dei popoli sterminatore di milioni di kulaki, e il sincretismo d’Oriente.
Soltanto il Figaro lo aveva ricordato con un articolo misurato, rammentando che era stato ferito tre volte nel primo conflitto mondiale- alla testa, a un braccio e a un timpano- e decorato con la Croce di Guerra.
Radio e quotidiani lo avevano marchiato come traître, traditore.
Se è condivisibile la frase del generale Charles de Gaulle dans les lettres, comme dans tout, le talent est un titre de responsabilité, l’autore di Le feu follet e Gilles, avrebbe avuto poche possibilità di cavarsela, perché di talento e di stile ne aveva eccome, nonostante le pagine di alto livello s’alternassero a ripiegamenti e divagazioni, tra compassata eleganza e disordine. Di Hugo ce n’è uno solo.
L’articolo 75, libro IV del Codice penale francese, parla di intelligenza con il nemico. Acte criminel consistant à entretenir des relations avec des puissances, des entreprises ou des organisations étrangères (ou leurs agents).
Il 6 febbraio 1945, il giornalista, poeta e critico cinematografico Robert Brasillac, era stato fucilato per i suoi articoli antisemiti. Aveva pubblicato liste di nomi e cognomi e indirizzi di ebrei. De Gaulle aveva negato la grazia. Uno per tutti.
Un quotidiano aveva informato Drieu dell’apertura di un procedimento a suo carico. Il dado era tratto.
Che l’elenco degli scrittori conniventi fosse fitto, è cosa di questo mondo, non della Francia. Tra sentenze non esemplari, errori giudiziari e amnistie, tutti ne uscirono in piedi, come Jacques Chardonne, arrestato il 12 settembre 1944, poi in libertà vigilata, esiliato dalle librerie, infine complimentato da Mitterrand.
Era di questo mondo anche la lista di proscrizione aggiornata più volte da scrittori non compromessi. Nel computo, però, erano entrati fatti oggettivi e misfatti attribuiti, gelosie, vendette personali, conti in sospeso, questioni sentimentali. Il valore letterario non è ascrivibile alla inesistente categoria degli scrittori maledetti.
Drieu fu accusato anche di aver assistito, in compagnia di papaveri nazisti, alla prima del Tristan und Isolde di Wagner, diretta da Herbert von Karajan e di essere presente alla mostra di Arno Breker all’Orangerie, peraltro applaudita da Jean Cocteau.
Si è gridato allo scandalo quando, nel 2012, la Pléiade diretta da Hugues Pradier e pubblicata da Gallimard, ha proposto la raccolta di Drieu la Rochelle: État civil – La Valise vide – Blèche – Adieu à Gonzague – Le Feu follet – La Comédie de Charleroi. Le Voyage des Dardanelles, Rêveuse bourgeoisie.Gilles (con tre capitoli tagliati) –Mémoires de Dirk Raspe – Récit secret.
Con tutt’altra libertà intellettuale, André Gide disse che non si fa letteratura con i buoni sentimenti. Chapeau!
La tattica dell’embargo impoverisce tutti. Per quasi cinquant’anni, Drieu è stato uno spettro nel diniego delle sue irregolari, incostanti, notevoli doti narrative, neanche fosse stato, nella coscienza del suo Paese, un peccato inconfessabile.
L’incompiuto, superbo Mémoires de Dirk Raspe, sul dolente, fragile, esaltante fremito esistenziale e artistico Vincent Van Gogh, certamente tangente e autobiografico, non sarebbe dovuto finire sugli scaffali delle librerie? È stato pubblicato solo nel 1966.
Il tempo provvede diversamente. Se vuole, senza dimenticare.
Vorrei rientrare nella notte che non era notte nella notte senza stelle, la notte senza dei, nella notte che non ha mai portato giorno, che non ho mai prodotto il giorno, nella notte immobile muta intatta, nella notte che non è mai stata e non sarà mai.
Così sia. (Pierre Drieu la Rochelle)