Il mondo non ha fine – Tim Severin come l’ultimo Ulisse

Tim Severin (1940-2020), navigatore, esploratore, documentarista, scrittore, ultimo romantico, specialista nel ripetere le grandi navigazioni della storia e della leggenda, da san Brendano a Ulisse, ha dimostrato come fossero state realmente vissute le pagine del mito. Questa mia, è una delle sue ultime interviste. Ci scrivevamo in Francese, dialogando io nell’astratto dei suoi spazi assoluti e lui, nei miei, ridotti in scala come una carta nautica rispetto all’oceano.

La sua gentilezza e il suo garbo erano rari. Come è nel ristretto novero dei Grandi più Grandi.


La prima regola del giornalismo vuole che mai un articolo inizi con un avverbio o con una citazione. Iniziamo dunque con una domanda: esiste ancora l’avventura? Meglio: esistono ancora gli esploratori? La prima risposta ce la diamo da soli. Si. La seconda impone un distinguo, dato che del mondo si è visto tutto o quasi, spesso fermandosi al primo strato della cipolla. Viaggiatori per caso, turisti per caso, navigatori per caso. Verrebbe da dire che la razza degli esploratori è scomparsa, diversamente da quella degli ardimentosi che scalano gli ottomila o navigano in solitario da un oceano all’altro o si calano nelle viscere della Terra. Ma ci sono altri, pochi, pochissimi, i viaggiatori del mito, i visionari concreti, i sognatori che non si arrendono. Su tutti, uno, il settantenne inglese Tim Severin, storico, romanziere e, appunto, esploratore. Il più grande di tutti, parlando di questo secolo che ha da poco compiuto dieci anni e del precedente. Tanto per capirci: studente a Oxford, partecipa alla Marco Polo Expedition e, in sella a una Norton, va da Venezia alla Cina. È solo l’inizio: legge la «Navigatio Sancti Brendani», scritta da Brendano, monaco irlandese vissuto tra il V e il VI secolo d.C, racconto del suo mitico viaggio per mare durato sette anni alla ricerca del Paradiso. Severin intuisce che i luoghi descritti, ritenuti di fantasia corrispondono, invece, a luoghi geografici. E costruisce una barca il più possibile simile a quella del monaco: ossatura in faggio rivestita da pelli di bue. Alcuni docenti universitari di Chimica gli anticipano che la barca andrà a fondo nel giro di poche ore: la concia della pelle non garantirà l’impermeabilità. Ma Severin non molla: cerca e trova una famiglia di conciatori, l’ultima di una «dinastia» che da mille anni lavora le pelli e apprende che, all’epoca di San Brendano, le querce da cui veniva ricavato il tannino non erano quelle di oggi, importate dall’America. Esiste ancora qualche bosco di rovere europeo. La facciamo corta: il Brendano, con il suo «scheletro» flessibile, viene rivestito di pelli lavorate come millecinquecento anni prima, viene armato con due vele quadre e attraversa l’oceano.

Il «Brendano» ricostruito da Severin che ha ripercorso la rotta compiuta dal frate irlandese 1400 anni fa


Questo Ulisse dei nostri giorni ricrea il mito di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del Vello d’Oro, navigando su un’altra «replica», una nave dell’Età del Bronzo. E, proprio come Odisseo, ripercorre il viaggio senza fine verso Itaca e torna in oceano su un vascello arabo, salpando da Muscat, capitale dell’Oman, alla Cina seguendo il fil rouge di Sindbad il marinaio. Non c’è leggenda che attraversi la storia che Severin non esplori: segue le tracce dei primi Crociati diretti a Gerusalemme e naviga sul Pacifico su una zattera di bambù per provare che gli antichi abitanti del Celeste Impero hanno raggiunto l’America.

Il suo DNA declina ogni giorno la più bella parola del vocabolario: «lontano». Dal mare alla terra, cavalca nelle steppe mongole che custodiscono la tomba di Gengis Khan e, a bordo di un «praho» del XIX secolo raggiunge le isole dell’arcipelago della Sonda sulle tracce del naturalista Alfred Russell Wallace. Di più: scopre che il capodoglio albino, Moby Dick, è realmente esistito prima che Melville scrivesse uno dei più straordinari romanzi di sempre. Il crinale tra fedeltà letteraria e fedeltà di cronaca è varcato: è Robinson Crusoe, il naufrago per eccellenza, solo sotto il cielo stellato dei Caraibi. Severin è un «unicum» di scienza e genio: documenta nei suoi libri ogni tappa delle sue imprese, dall’idea primigenia sino all’atto finale. Vince i principali premi letterari, dal «Book of The Sea Award» al «Thomas Cook Travel Book Award». La Royal Geographic Society gli conferisce la Gold Medal. Severin usa la cinepresa come una matita: i suoi documentari sono parte integrante dei palinsesti di Discovery Channel, Sky, National Geographic Tv.

Il narratore diventa romanziere nel 2005 con il primo romanzo della «Trilogia del Vichingo»: «Il Vichingo» (Odin’s Child», «La vendetta del vichingo» (Sworn Brother) e «L’ultimo guerriero» (King’s Man).
«La rotta dei Corsari» (Corsair, 2007) apre il secondo filone, quello piratesco, che ha per protagonista Hector Lynch in «Buccaneer» del 2008 e «Sea Robber» del 2009. Ecco un nuovo romanzo: «Il Bucaniere della Giamaica», in uscita il 15 aprile per «Nord» (Gruppo Longanesi) che ha già pubblicato «La rotta dei corsari». Lynch viene catturato dal bucaniere John Coxon, la sua nave, l’Arc en Ciel, è sequestrata. Storia nella storia: compare l’ammiraglio Henry Morgan (1635-1688), già pirata e corsaro, all’apice della car- riera governatore della Giamaica… Quest’accenno di trama ci da il «la» per porre a Severin la prima domanda, con tanto di premessa.

Lei è ritenuto il più grande esploratore vivente. Scrive i suoi romanzi con assoluta veridicità storica e geografica o o si concede licenze letterarie?
«Come narratore -risponde Severin- voglio catturare l’attenzione del mio lettore e coinvolgerlo. Così, cerco di plasmare il racconto in modo che abbia colori e azioni che lo intrattengano e lo intrighino. Cerco di determinare l’input dell’immaginazione letteraria. Ma allo stesso tempo mi sento veramente a mio agio con ciò che scrivo solo se l’ambientazione fisica- i luoghi e le scene- sono geograficamente corretti, e mi impegno affinchè i dettagli storici siano plausibili, sebbene ovviamente giochi con le date, crei fatti e inventi personaggi».

Hector Lynch è stato plasmato ispirandosi al Suo libro di avventura preferito?
«Volevo che Hector Lynch fosse veramente “europeo”- metà irlandese, metà spagnolo, e totalmente riconoscibile dai miei lettori. Per questa ragione ho scelto il suo nome cristiano- Hector- un nome che ha diverse varianti in tutta Europa- mentre il suo cognome, Lynch, viene tradotto come “vagabondo” o “uomo di mare/viaggiatore” in lingua irlandese. In questo senso spero che Hector Lynch sia un personaggio originale, sebbene io sappia nell’intimo di essere stato inconsapevolmente ma favorevolmente influenzato dai libri di avventura».

Epoche storiche, ambientazioni, eventi?
«Per i miei romanzi storici scelgo quei periodi e quei luoghi che mi consentono di attingere alle mie esperienze dirette, accumulate in trent’anni di navigazioni e viaggi di terra. Sono stato testimone di universi così stratificati, intrecciati e variegati che ora posso scrivere e descrivere nei miei romanzi tempeste, approdi, meraviglie della natura. E ovviamente sono sensibile a quei periodi storici in cui all’esplorazione erano sempre abbinate la meraviglia della scoperta e la sfida all’ignoto».

Le relazioni delle Sue esplorazioni e viaggi, da «The Brendan Voyage» a «The Ulysse’s Voyage», hanno riscritto i confini tra mito e storia, leggenda e realtà. Come se fossero romanzi. La realtà supera sempre la fantasia?
«La realtà spesso può superare la fantasia, è vero. Nel qual caso la realtà diventa ancora più sorprendente. Scrivendo di Hector Lynch mi sono reso conto di non aver alcuna necessità di elaborare chissà quale intreccio narrativo. Ho solo dovuto leggere i diari e i giornali di bordo di coloro che si erano avventurati ai Caraibi e nel Mare del Sud o erano stati fatti prigionieri dai pirati. La “loro” realtà è stata più spettacolare delle avventure di Hector Lynch. Ho preso prestito queste avventure di vita vera e le ho ridisegnate per Hector».

Nella «Ricerca di Moby Dick» ha navigato nella scia della mitica balena bianca di Melville. Se i Suoi occhi avessero visto davvero il soffio della balena bianca, quale emozione l’avrebbe pervasa? E con «cosa» mai avrebbe accettato di barattare quel fremito dell’anima?
«Se avessi visto il soffio di quella creatura meravigliosa, un respiro affannoso di stupore e gioia avrebbe saturato i miei polmoni. Negli occhi dei cacciatori di balene di una piccola isola indonesiana ho colto un barlume di soggezione e di rispetto, di pura ammirazione per il capodoglio che protegge il suo branco. Ripeto: ammirazione, nonostante le loro piccole barche vengano attaccate e affondate da quel gigante. Non sapevano chi fosse Moby Dick ma parlavano con parole identiche a quelle che il romanziere ci fa udire a bordo del Pequod. Se avesse avuto il privilegio di ascoltarli, Melville stesso avrebbe applaudito».

Tim Severin e il futuro.
«Sto progettando spedizioni che possono fornire ambientazione e colore per altri romanzi storici C’è un mondo intero, lì, fuori».